Ai 25mila aderenti al movimento Rinnovamento nello Spirito il Cardinal Biffi ieri ha detto che bisogna annunciare il Vangelo anche ad ebrei, musulmani e buddisti. Era presente anche il vescovo di Tikrit, luogo natale di Saddam Hussein.
"Vedendo la franchezza di Pietro e di Giovanni." (At 4,13) -
Franchezza traduce il termine greco "parresia" che è
frequentissimo nel Nuovo Testamento e indica soprattutto lo
stile dei discepoli di Gesù nel rendere testimonianza al
loro Maestro: vuol, dire "libertà di parola" e
capacità di esprimersi senza paure.
È un vocabolo che in questi decenni talvolta compare nei
discorsi di qualche settore acculturato e inquieto della
cristianità; ma viene usato con un significato ben
diverso da quello neotestamentario. Mette conto allora di
mettere in luce qualche necessaria distinzione.
Secondo gli scritti apostolici "parresia" è il coraggio
di annunciare il Signore Gesù e il suo messaggio di
luce, anche davanti a chi è ostile, prevenuto, talvolta
persino prepotente e oppressivo. Non è la
temerarietà di turbare i fratelli nella fede, proponendo
opinioni mondane e facili compromessi.
È sfidare i dominatori di questo secolo (i signori del
potere, della ricchezza, dell'informazione) affidandosi alla
sola forza del Vangelo. Non è contestare gli inermi
pastori della Chiesa, magari proprio nei momenti e nelle
occasioni in cui con le loro dichiarazioni essi si sforzano di
restare fedeli al loro Signore e alla sua volontà.
È la meditata fermezza di far risuonare tra le molte e
volubili insipienze umane l'eterna sapienza di Dio. Non
è la superficialità e l'improntitudine di far
circolare entro l'incolpevole popolo cristiano le proprie
discutibili idee, anche quando sono lontane dal comune sentire
dei fedeli e dalla sana tradizione ecclesiale.
Insomma, "parresia" non è l'audacia di diffondere entro
la "nazione santa" e il "popolo che Dio si è acquistato"
(cfr. 1Pt 2,9) le aberrazioni della cultura dominante; è
invece l'animosa e indomabile volontà di portare Cristo
e il suo Vangelo a un'umanità che appare spesso
disorientata e riottosa, ma intimamente è sempre
assetata di verità e di salvezza.
Questa franchezza apostolica è un dono prezioso dello
Spirito Santo, il quale sa infondere e alimentare nel cuore dei
credenti la novità della vita redenta, preserva da ogni
avvilente timore umano, regala un autentico e soprannaturale
non-conformismo: "Dove c'è lo Spirito del Signore,
lì c'è la libertà" (2 Cor 3,17). Ed
è un dono che dobbiamo quotidianamente implorare.
La seconda parola su cui cerchiamo di riflettere è
"incredulità". È impressionante l'insistenza di
questa finale del Vangelo di Marco nel rilevare lo stato
d'animo del Nazzareno in quella decisiva giornata di Pasqua:
"non vollero credere" (Mc 16,11), "neanche loro vollero
credere" (Mc 16,13) "li rimproverò per la loro
incredulità" (Mc 16,14).
Questa incredulità dei primi discepoli giova alla nostra
fede e la rafforza. L'ipotesi che il Crocefisso del Golgota
potesse tornare in vita era del tutto estranea ai loro
pensieri: dopo aver visto la pietra rotolata sul sepolcro che
racchiudeva il corpo esangue del loro Maestro, essi erano tutti
delusi, avviliti, senza alcuna fiducia. Il Signore ha dovuto
faticare non poco a convincerli della sua risurrezione.
Dove si vede che l'evento pasquale non nasce da una pia
illusione o dal desiderio negli sconfitti di un'improbabile
rivincita (come qualcuno ha immaginato in contrasto con tutti i
dati storici in nostro possesso). Il convincimento della
risurrezione nasce da ciò che contro ogni attesa e ogni
speranza è effettivamente avvenuto. L'avvenimento
sorprendente e assolutamente inaspettato ha costretto a
credere; è l'avvenimento che ha generato la fede, non
è la fede che ha creato l'avvenimento.
Gesù pare segnalare la causa psicologica
dell'incredulità, quando aggiunge il concetto di
"durezza di cuore" ('sclerocardia') dove il "cuore" indica l'
intero mondo interiore dell'uomo, ivi compreso (secondo la
cultura semitica) anche l'attività intellettuale.
Nel Nuovo Testamento la "sclerocardia" "denota l'ostinata
insensibilità umana agli annunci della volontà
salvifica di Dio; volontà che domanda di essere accolta
dall'uomo appunto nel "cuore", cioè nel centro della sua
vita personale" (Kittel V,216)
È una malattia spirituale che può ritrovarsi in
forma leggera o in forma grave persino in coloro che sono
più o meno "credenti". Perciò è opportuno
che ciascuno di noi s'interroghi e si esamini su questo
punto.
Anche in coloro che pure hanno una fede sincera e autentica
permangono di solito delle "zone di incredulità":
residui pagani di mentalità, di sensibilità, di
affettività, che chiedono di essere seriamente messe in
sintonia col Vangelo. Ci sono nel nostro universo interiore
delle regioni sulle quali la croce non è stata ancora
piantata. Lo Spirito Santo ci sproni e ci sostenga in una
nell'impresa difficile e necessaria di una continua
'autoevangelizzazione"
Credo sia anzi lecito, e persino benefico, pensare addirittura
che i confini tra la fede e l'incredulità passino
attraverso il cuore di ogni uomo. Ciascuno di noi possiede
dentro di sé, in groviglio e in tensione, le gioiosa
certezze che ci sono date da Dio e le più tormentose
difficoltà umane, le speranze e gli smarrimenti, la luce
e l'oscurità.
Mi ha sempre colpito la preghiera del padre del ragazzo
epilettico, riferita nel vangelo di Marco: "Credo, Signore, ma
tu aiuta la mia incredulità" (Mc 9,24)
Sembra una contraddizione: crede o non crede quest'uomo? Sembra
una contraddizione, ma forse, a un livello di conoscenza
più profonda e più concreta, questa implorazione
coglie stupendamente il mistero insondabile del nostro cuore.
"Predicate il Vangelo a ogni creatura" (Mc 16,15). È
l'estremo comando che ci ha lasciato il Risorto.
Dalla fede scaturisce l'annuncio. Chi crede sul serio non
può non darsi da fare perché anche gli altri
credano. Chi è stato davvero evangelizzato diviene per
forza di cose evangelizzatore. Nessuno osi distoglierci dall'
attenere a questo nostro dovere primario. Sarebbe come
impedirci di essere quello che siamo; e costituirebbe un grave
e intollerabile attentato alla nostra identità di
cristiani cattolici.
Gesù ci ha detto: "Andate in tutto il mondo ad
annunciare il Vangelo". Non ci ha detto: "Andate a
dialogare."
Spero di non essere frainteso. Non ce l'ha detto, non
perché il dialogo sia una cosa riprovevole o inutile, al
contrario: non ce l'ha detto perché il dialogo con tutti
è una cosa tanto ovvia e inevitabile da poter essere
tranquillamente sottintesa. Ma ha scelto positivamente di
sottintenderla perché l'impegno dell'annuncio, espresso
in modo esplicito, risaltasse nella sua primarietà senza
possibili malintesi o confusioni.
Gesù ci ha detto: "Predicate il Vangelo a ogni
creatura". Non ci ha detto: "Predicate il Vangelo a ogni
creatura tranne gli ebrei, i musulmani e il Dalai Lama".
Nessun timore di esser accusati di proselitismo può
raggelare il nostro slancio apostolico. Il proselitismo
consiste nel non rispettare la libera autonomia delle persone,
costringendole con la violenza o l'astuzia o le pressioni
psicologiche; e noi fermamente lo riproviamo.
Noi dobbiamo e vogliamo contare soltanto sul fascino naturale
che la verità di Cristo possiede quando è
presentata con intelligenza e integralmente, ed è
testimoniata dalla carità. Ma soprattutto contiamo sulla
grazia illuminante dello Spirito Santo, che è capace di
vincere ogni "sclerocardia".
Giacomo Cardinal Biffi
Rimini, convocazione dei gruppi del Rinnovamento nello
Spirito Santo
26 aprile 2003